Susanna Marsiglia

Susanna Marsiglia nasce in quel di Tradate non troppi anni fa.

Vive a Binago, sebbene a intervalli regolari sia possibile scovarla in qualche angolo remoto del mondo. Frequenta il liceo linguistico Alessandro Manzoni di Varese, dal quale conta di fuggire il più presto possibile.

Ama tutti gli animali esclusi gli homo sapiens, si interessa di arte, scrittura, cultura orientale, cinema e teatro. Ha una fissa inguaribile per i fumetti e il cinema d’animazione.

Adora disegnare, scrivere, comporre sceneggiature demenziali o improvvisarsi giornalista della domenica. Nei momenti di maggiore autostima si crede anticonformista.

Il racconto

Sedette pigramente sull’erba umida, quasi non accorgendosi di quanto fosse inaspettatamente impregnata visti l’orario e la stagione. Il rito era il solito, ciclico ma irrinunciabile: gambe accavallate, l’espressione corrugata di chi sa cosa vuole ma non come ottenerlo, e nel giro di un attimo si ritrovò a ponderare quasi involontariamente. Un meccanismo che ogni volta si azionava come un ingranaggio appena oliato.

Il sole non ci mise molto a prenderlo di mira, adagiato com’era in mezzo al nulla, e si accanì senza ritegno sulla sua veste nera schiaffeggiandola del bollore più insopportabile. L’arsura non lo fece patire più di tanto, la trovava quasi grade-vole. Si poggiò compostamente le mani in grembo e prese a guardarsi in-torno con la stessa morbosa curiosità di un bambino che analizza il mondo per la prima volta. Osservò senza motivo la boscaglia che si era lasciato alle spalle, l’unica via d’accesso a quella radura dimenticata, prima di posare lo sguardo su di un punto imprecisato davanti a sé, lo spartiacque tra cielo e terra. E lì i suoi occhi piantarono dimora fissa.

Pensò agli uccelli, li ascoltò, udì ogni loro più impercettibile lamento. Gli uccelli, quanta maestosità in un corpo tanto piccolo e gracile. E, quasi a voler toccare l’aria per sentirsi uno di loro, chiuse gli occhi, si lasciò cadere sulla schiena e protrasse la braccia verso il cielo. Senza volerlo gli sbucarono in mente le immagini degli angeli bianchi che tanto amava scrutare da lontano. I cigni, quanto li aveva esaminati. Per il suo Leda, all’inizio. Poi si era soffermato a studiarne le enormi ali bianche e maestose, e aveva sognato. Sognava il volo, sognava gli uomini librarsi in aria come volatili, sfiorare le nuvole, lasciarsi cadere da un precipizio senza il minimo timore. Da quando aveva preso a camminare per boschi ci aveva pensato sempre di più, quell’utopistica visione si era fatta sempre meno sbiadita nella sua testa. E forse davvero qualcosa si poteva fare.

Non era poi così impossibile, in fondo; il gioco di proporzioni e le leggi basilari che regolano il bizzarro mondo del volo possono essere compresi anche da un bambino. Pura e semplice meccanica, se l’era persino appuntato. Ricordò quanto il tutto gli fosse parso assurdamente semplice una volta ragionatoci sopra: l’aria è comprimibile, esercita una resistenza che è in grado di sostenere un corpo. Nessun mistero, nessuna magia, nessuno strano rito tanto decantato da maghi o sedicenti tali. Il segreto è nel battito delle ali, e semplicemente gli uccelli sono solo fortunati ad esserne dotati. Corredare anche gli esseri umani di un paio di maestose braccia alate era ormai quasi una missione. Se incompiuta, non solo avrebbe rappresentato un epico fallimento, ma anche e soprattutto un duro colpo per il suo orgoglio, ché avendo ormai toccato i reconditi meccanismi teorici del volo non doveva né poteva as-solutamente fermarsi. Non coronare il tutto con la realizzazione del sogno dell’umanità significava lasciare al mondo una mezza verità. E le mezze verità non gli erano mai andate giù.

Per un attimo si ricordò dei progetti per la statua equestre che giacevano dimenticati nel suo studio, troppo poco affascinanti per calamitarlo al tavolo ed ultimarli. Ma nessun senso di colpa lo attanagliava. Adesso non era quello il suo scopo, non poteva esserlo. Veniva pagato per quella statua, riusciva a mettersi qualche tozzo di pane in bocca e a mantenere i suoi assistenti solo grazie a lei, ma non la considerava niente più e niente meno di un mero lavoro svolto sotto commissione. Uno spruzzo di ribellione gli macchiò la mente: perché non poteva dedicarsi solamente a ciò che lo interessava? Chi erano gli altri per pretendere di tarpare le ali ad un uomo che anelava soltanto a migliorargli la vita? La guerra, solo questo importava alla gente. Inutili beghe fra città, famiglie, ducati, alleanze in-sensate e spesso fasulle. Ogni pretesto era buono per mettere su una mezza battaglia. Tutto mirato a distruggere, anziché a -re. Il volo, la guerra. E cosa sarebbe accaduto se i soldati avessero potuto volare? Attaccare i nemici dall’alto, nella maniera più inaspettata, dall’unica via non ancora percorsa. Nessun fallimento. Solo vittorie.

Non gli ci volle che qualche manciata di attimi per giungere a collegare l’arte del combattimento con il suo progetto. Ogni soldato fornito di un paio d’ali meccaniche, incredibile velocità negli “>gli gli “>spostamenti, possibilità di far librare in aria anche centinaia di uomini alla volta. Fu come un impeto: afferrò la sua borsa, fortuna che l’aveva portata con sé. Frugò scompostasua “>mente. La matita, il taccuino. Li schiaffò sull’erba bagnata, sfogliò con foga le pagine giallastre fin quasi a strapparne i lembi, smarrendo la sua mente in una sorta di preghiera senza fine affinché quello fosse proprio il taccuino su cui aveva appuntato gli studi sulle anatre. Eccoli. Venti pagine di annotazioni, schizzi, calcoli. Quasi gli parve di aver moltiplicato il numero dei suoi occhi quando, senza nemmeno pensarci troppo, iniziò a tracciare lo schema di un’ala mentre scorreva con lo sguardo ogni singola riga dei suoi studi. La mano sudata si agitava morbosamente, vittima di un non meglio identificato sortilegio che la costringeva a disegnare, disegnare, disegnare. Non usò nemmeno gli strumenti, niente misurazioni. Non poteva smettere di seguire quell’indomabile istinto, quasi gli sembrò di essere controllato da una forza superiore. Quando staccò la matita dalla carta, ansante e incredulo, aveva tracciato qualcosa che andava ben al di là di tutto ciò che aveva creato, abbozzato o immaginato fino a quel momento. Ali battenti, azionate dalla sola forza umana tramite corde e carrucole. Una struttura chiaramente da perfezionare con l’ausilio di misure e strumentazioni tecniche, ma che era quasi perfetta. Anzi, era perfetta. Assolutamente. Si voltò verso il sole, come per ringraziarlo di avergli donato quel colpo di calore e la conseguente ispirazione. Poi ascoltò il pigolio dei passerotti appena nati. E non poté fare a meno di sorridere osservando la sua neonata, eppure già meravigliosa macchina per volare.

Sì, si poteva fare.

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